Che cos’è il cambiamento e come si affronta? L’etimologia della parola ci insegna che per affrontare il cambiamento è necessario volgere lo sguardo, letteralmente cambiare direzione. Fare una curva e ritrovarci di fronte a un orizzonte nuovo
Cambiamento, di solito arriva fra capo e collo. Può accadere di volerlo, con caparbietà e consapevolezza, portarlo nella nostra vita (quanta fatica, di solito per attuarlo!). Il più delle volte accade, semplicemente. Il cambiamento arriva così, fra capo e collo: è un amore che finisce, una scoperta che ci cambia la vita, una nascita o una morte, è il lavoro, la passione, una questione di famiglia. È, sempre e nonostante tutto, una cosa che tocca noi, proprio te, me, ciascuno di noi. Il cambiamento ci sfiora e da quel momento ha già segnato la prima delle sue fondamentali conseguenze: c’è un prima e un dopo.
Proprio così, questo è uno degli effetti, forse il più grande e difficile da affrontare. Ogni processo di cambiamento segna un prima e un dopo. Non si può tornare indietro. È un po’ come guardarsi allo specchio dopo un grande evento e scoprire che la faccia che ci guarda è quella di un estraneo, una persona che dobbiamo ancora scoprire: noi stessi.
Il cambiamento dentro ha anche questo: porta allo scoperto parti inesplorate, territori incontaminati mai esplorati prima e forse proprio per questo cambiare fa paura. Sì, cambiare non è così facile, nemmeno quando si vuole, e non è nemmeno esente da rischi, deviazioni, sbagli. È che si tratta di una foresta vergine che dentro ha l’ignoto, il grande ignoto. L’attrazione che esercita è magia, desiderio… e puro terrore.
L’origine etimologica della parola cambiamento viene dal greco antico, kampto. Tra i significati del verbo kàmbein troviamo:
“piegare, curvare” (per esempio piegare il cerchio di una ruota, piegare il ginocchio); “voltare, guidare intorno” (fare una curva, ma anche, in senso figurato ed esistenziale, una svolta di vita); nel gergo della navigazione questo verbo veniva utilizzato per dire “doppiare, girare intorno, costeggiare”; tornare indietro; in musica può essere tradotto con i termini “modulare, gorgheggiare”; infine ì, in senso figurato, è usato anche per esprimere l’idea di “piegare, umiliare, intenerire, muovere a compassione”. Al passivo, piegarsi o prostrarsi.
Quando devo affrontare una curva, per farlo con successo
ho bisogno di voltarmi,
piegare il collo.
Guardare in un’altra direzione
Questo significa che se fino a un attimo fa guardavo dritto davanti a me, adesso devo prendere in considerazione una nuova prospettiva: forse è che mi ero stancata di fissare quel punto, forse c’è un ostacolo da un’altra parte che impone la mia attenzione. La risposta è diversa per ognuno di noi, a seconda del capitolo di vita. Il fatto è che mi tocca.
Devo spostarmi, o meglio devo indirizzare in modo nuovo la mia attenzione.
Proprio come accade nel traffico o durante un tragitto. Nel viaggio della vita non posso fissare le mie pupille in un’unica direzione, il rischio è di perdermi, come un paraocchi, ciò che sta accadendo da un’altra parte.
C’è qualcosa, qualcos’altro che sta chiamando i miei sensi e quanta paura, a volte, può richiedere una nuova strada da intraprendere. Eppure, poi succede: novello patentato, imparo a curvare il volante sempre più velocemente, imparo ad avere orecchie e occhi concentrati sui segnali della strada; sto attento al mio percorso, ma al tempo stesso non mi perdo gli ostacoli da evitare, schivo una buca, lascio passare un pedone che attraversa.
E può succedere, sì, di dover tornare indietro, sbagliarsi, ritornare in una rotonda già vista e questa volta prendere una nuova uscita. Dopotutto, doppiare, dal latino duplare e in spagnolo antico doblar, è anche raddoppiare, riunire (i capi di una corda). Racconta la leggenda che il vascello fantasma dell’Olandese volante, tragicamente affondato prima di condurre con successo l’impresa, per sempre vaga senza meta nelle acque tempestose dell’oceano condannato per sempre dalla promessa di riuscire a doppiare il capo di Buona Speranza, prima o poi. Cabo da Boa Esperança, erroneamente considerato il punto più a sud del continente africano (in realtà, sarebbe capo Agulhas) per secoli considerato l’estremità meridionale della penisola del Capo in Sudafrica e il punto di separazione tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano: il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz nel 1487 lo chiamerà “capo delle tempeste”. Il mito racconta che un tempo fu il gigante Adamastore, innamorato di Teti, la più bella delle Nereidi, per punizione trasformato in roccia. Se doppiare nelle gare di corsa è “sorpassare di uno o più giri l’avversario” (Treccani), in marina è il passaggio, di un’imbarcazione, oltre un certo punto, promontorio, estremità del molo, boa o ostacolo che sia.
E che fatica nel raddoppiare gli sforzi, passare dove siamo già stati, attraversare confini.
Poi, un giorno ti accorgi che all’improvvisa è l’alba, un giorno nuovo miracolosamente iniziato, il cielo si colora di rosa e la luce diventa più intensa, la calma nell’aria.
La tempesta è alle spalle adesso, hai passato il punto.
Il cambiamento è già successo. Un giro di boa.