All cultures, past and present, have had death system
Robert Kastenbaum
Nel 1977 Robert Kastenbaum conia il termine “death system” per elaborare il concetto di morte in quanto sistema.
Tutte le culture del mondo, passate e presenti, possiedono differenti sistemi di morte, che si vanno costituendo a partire dai significati che noi diamo agli eventi, alle relazioni sociali e alle esperienze, attraverso le quali impariamo a farci un’idea e sentire il senso della fine, del morire, dell’esistenza.
Nel linguaggio medico “sistemico” è un termine detto di ciò che coinvolge un intero sistema. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento l’uso di sistemico in psicologia sperimentale inizia a essere utilizzato per spiegare una manifestazione attraverso l’analisi del contesto. Il contesto è il luogo che ci dà modo di comprendere come le relazioni influiscono e costruiscono la nostra vita: questo vale per il nostro organismo, ossa e sangue, così come per le situazioni che affrontiamo a livello interpersonale, familiare, sociale. Considerare la via sistemica significa non fermarsi al singolo, bensì assumere uno sguardo globale, capace di inserire la singolarità nello scenario di un orizzonte in cui si muovono differenti attori. Ad andare in scena è la trama della vita: un palcoscenico in cui non siamo mai soli. Costantemente, entriamo a far parte di qualcosa infinitamente più grande rispetto a ciò che noi siamo, qualcosa che ci modifica, in cui ci scontriamo e integriamo.
Mai soli, siamo sempre parte di un sistema
Cure palliative: la storia
È il 1956 quando Robert Kastenbaum, insieme ad altri colleghi e ricercatori, partecipa al convegno “The Concept of Death and its Relation to Behavior”. Dopo l’orribile spettro della morte generato dalle due guerre mondiali e la catastrofe della bomba atomica, la percezione della società e dell’esistenza (e con essa, della sua fine) assume nuovi contorni.
Il mondo intero è un sopravvissuto. Ci vorranno anni prima che si inizi a parlare degli eventi accaduti, dei campi di sterminio e delle devastazioni. Ci vuole tempo prima di poter parlare delle ferite e prima di iniziare a vederle: il tempo che serve a trasformare un taglio in cicatrice, il tempo della ricostruzione.
Quello che viene presentato dallo psicologo clinico Herman Feifel all’incontro annuale dell’American Psychological Association del ’56 a Chicago è un simposio per il confronto e la riflessione sul concetto di morte, che servirà da base per la sua ricerca, pubblicata qualche anno dopo, nel 1959, “The Meaning of Death”.
Da qui questo segmento di studi trova approfondimenti sempre maggiori e psicologi come Daniel Leviton e Robert Kastenbaum consapevolmente si faranno portatori di un movimento di educazione al morire. La morte viene studiata attraverso nuovi punti di vista: dagli studi emerge che la morte non è un problema unidimensionale.
Viviamo su più dimensioni,
a cavallo di molti mondi
e così è anche per la morte:
la sua equazione non si traduce in un’unica variabile.
La visione che abbiamo
sul mondo, la vita, la morte
l’inizio, la fine
costituisce una realtà multidimensionale
In parte affondando nella landa deserta delle nostre ombre inconsapevoli, in parte emerse alle coscienza, i territori in cui camminiamo rappresentano un viaggio di continua scoperta. Passo dopo passo incontriamo altre forme di vita e altre persone, stili di vita e abitare, orizzonti mentali distanti dal nostro e culture che si intrecciano.
Nel 1990 viene proposta la definizione ufficiale di Cure Palliative da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in cui si inizia a porre l’accento sulla qualità della vita, affermando il valore della vita insieme alla morte in quanto evento naturale.
Di fronte alla morte
Deceduto all’età di 80 anni a Tempe, Arizona, il 24 luglio 2013, il professor Robert Jay Kastenbaum nel 1977 “Death, Society and Human Experience”. Alcuni anni prima la psicologa ungherese Maria Nagy si era chiesta come percepiscono la morte i bambini, teorizzando tre stadi di sviluppo in base alle idee sulla morte.
Secondo gli studi di Maria Nagy fino a 5 anni (primo stadio) quello che da bambini capiamo sulla morte è un’idea legata al concetto di separazione, compresa anche dai bambini più piccoli. Progressivamente la morte viene elaborata come evento da cui non si torna indietro (secondo stadio), tuttavia rimane la sensazione di due spazi intercomunicanti, quello della vita e della morte, che è vista sì come evento definitivo, ma al tempo stesso ancora possibile da eludere. Verso i dieci anni (terza fase) si intuisce in modo sempre più netto, talvolta crudo a seconda delle esperienze di vita, l’incontro con la mortalità che contraddistingue la condizione umana.
Esiste un momento della vita in cui incontriamo la morte, faccia a faccia. Per qualcuno si tratta di un ricordo indelebile, per altri l’immagine sfocata di un recesso nascosto fra le pieghe dell’anima, come un avecchia foto dimenticata in fondo a una tasca.
È un nonno, è il nostro amico animale, è una persona che abbiamo sempre visto e ora non c’è più. È sparita. Dove è andato?, ci si chiede da piccoli.
Vedere il corpo è vedere la morte, rendersene conto. Questo è uno dei motivi per cui partecipare a un funerale, se voluto e consapevolmente elaborato all’interno della famiglia, può diventare un’esperienza fondamentale per un bambino. Prova tangibile, testimonianza.
La sera scende e mentre la nebbia si confonde con l’oscurità, io mi rendo conto che la giornata è alla fine. Tutto ha una sua fine. Il pensiero del buio e della fine sono inestricalbilmente legati e nella mente bambina rivive il tempo antico di una notte ancestrale che non si spiega a parole ma si sente sulla pelle.
Sarebbe forse facile pensare che i tre livelli appena detti siano consequenziali e cronologici. In realtà potremmo prendere questi tre concetti e mescolarli, perché a guardare bene non appartengono solo a età della nostra vita. Come un acquerello che si scolora e scioglie fondendo sfumature e dimensioni, che cosa possiamo dire della cultura in cui siamo nati, delle idee sui morti e sul morire che ci ha consegnato e instillato? Il modo in cui riflettiamo sulla morte non è solo indice dell’età che abbiamo o del tipo di pensiero, cognitivo o mitico, raggiunto. Un adulto appartenente a una popolazione come quella amazzonica o dei nativi americani probabilmente avrà un’idea della vita e della sua fine molto diversa rispetto a un italiano, un greco, un newyorkese.
Ognuno di noi è portatore di un luogo,
una geografia che disegna le nostre origini e
il nostro modo di crescere nel mondo,
un luogo che è anche
uno spazio dentro,
dove risuonano le idee che ci hanno attraversato,
il carattere nostro e degli avi
i codici di un dna dell’anima che racconta
attraverso mille fili
la relazione fra noi e la vita
Così lontane, così vicine la vita e la morte: due estremità di un unico filo, il cordone ombelicale che ci unisce alla vita e poi si taglia. Impariamo a respirare da soli insieme al battito del nostro cuore ed è lui, quel muscolo misterioso, a dettare la musica del nostro tempo. Un tempo fatto su misura per noi.
La nascita è uno dei momenti più pericolosi per l’essere umano, per chi viene al mondo e per la madre. Se oggi completini colorati e oggetti ammantano la sicurezza della tecnologia di un’attesa da occupare (sembra) negli acquisti e in manualistica, le donne di un tempo rimanevano vigili. Ancora oggi il tempo della veglia, dell’attesa nella notte, è un’atmosfera che emerge rapidamente alla coscienza nell’intimità di certi corsi preparto. Perché non esiste una futura mamma che per un attimo non si sia sentita esposta, vulnerabile.
Faccia a faccia con la propria paura.
Dall’altra parte c’è il volto dell’esistenza, quei contorni sfocati che Boccadoro, l’indimenticabile artista tratteggiato da Hermann Hesse, insegue per anni senza mai poter raggiungere. Perché solo quando si muore, o si nasce, si guarda in faccia il mistero della vita.
“Tutto sfioriva presto, presto era esaurito ogni piacere e nulla rimaneva fuor che ossa e polvere. Ma no, una cosa rimaneva: la Madre eterna, antichissima ed eternamente giovane, col sorriso d’amore triste e crudele. La rivedeva a momenti: gigantesca, con le stelle nei capelli, seduta a sognare sul margine del mondo, coglieva giocando con la mano un fiore dopo l’altro, una vita dopo l’altra e lentamente li lasciava cadere nell’abisso senza fondo”
Hermann Hesse, Narciso e Boccadoro
La psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross, trasferitasi negli Stati Uniti nel 1958, lavora fra i reparti dell’Ospedale Billings di Chicago. Proprio in questi anni compie un’azione rivoluzionaria, un gesto che segnerà un incredibile cambiamento di prospettiva. La Dott.ssa. Kübler Ross si ferma: si siede accanto ai malati terminali che popolano quei reparti e fa domande: interrogativi che nessuno finora aveva avuto il coraggio di chiedere. Come si sta di fronte alla morte? Quali sono i pensieri, come si sente il corpo, quali sono le preoccupazioni, per esempio per i familiari? All’inizio sarà osteggiata e le sue interviste fortemente scoraggiate, ma da questa esperienza nasceranno quelli che oggi sono considerati i punti chiave della teoria sull’elaborazione del lutto e i near-death studies. Nel suo libro La morte e il morire, pubblicato nel 1969, elabora ciò che è la sua ricerca sui modi e le fasi con cui l’essere umano affronta la sofferenza e la morte.
A che punto siamo oggi? Quanto tempo ci prendiamo per sentire le nostre paure e le emozioni che si agitano dentro? Creare spazi dove poter parlare della morte e delle malattie, nostre e di chi amiamo, non dovrebbe essere così difficile. Eppure lo è. Ancora fatichiamo a trovare spazio dove poter lasciarci andare e, semplicemente, seguire il flusso di ciò che sentiamo. Sentire il flusso di ciò che sentiamo, niente di più semplice e al tempo stesso terrific: è difficile, il momento giusto sembra sempre… un altro. Specialmente quando siamo piccoli, perché se c’è un errore che ancora facciamo, nonostante i manuali e teorie che ingombrano continuamente la nostra vita, è pensare che i piccoli ancora non capiscono.
Non è vero, noi che piccoli lo siamo stati e che ce lo ricordiamo, lo sappiamo. Abbiamo scelto, talvolta, di fingere e non ascoltare, abbiamo fatto mezzi sorrisi, rassicuranti soprattutto per gli adulti; li abbiamo accontentati, continuamente, e intanto, dentro, quella piccola punta aguzza non ha mai smesso di roteare. E vorticando, senza risposte, ha spesso prodotto buchi neri giganteschi che da grandi, una volta adulti anche noi, ci hanno inghiottito e qualche volta divorato. Ma siamo ancora qui, a chiederci domande e lo sappiamo che non c’è risposta che alcuno possa dare: parlare della morte, fermarsi davanti alla fine è come un atto di contemplazione di fronte al tramonto. La fine accade ogni giorno. La fine ci attende da qualche parte, in un punto imprecisato del nostro viaggio. Nella natura tutto si ferma e tutto si ricrea, continuamente, attimo dopo attimo.
Ce ne andremo, un giorno. Ma non senza aver guardato tutto questo, che ci circonda: questa immensa bellezza, questa sconfinata meraviglia che brilla e affonda nel buio di uno stupore che si mescola all’orrore. Quella luce che ci splende dentro è lì, chiusa nell’universo infinito che vediamo nelle stelle e che ci batte dentro, dove il miracolo elettrico del cuore ogni istante ci fa continuare a stare nel viaggio